Ecco raccolti, tappa per tappa, degli assaggi del nostro viandare.
Ogni tendina introduce i mondi in cui ci stiamo calando. Apritele per saperne di più..
..in attesa del cibo perfetto

Partendo da Torino e seguendo una traccia attraverso sette regioni ed innumerevoli territori approderemo a Pantelleria. Lungo la via saremo guidati da maestri d’eccezione e raccoglieremo con pazienza una serie di strepitosi spunti gastronomici. Il ciclone esplorativo arriverà poi fino alle vostre tavole restituendovi i processi appresi, incluso il racconto di una loro parte essenziale: le attese.

 

Ortociclone è un progetto di cucina itinerante che nasce 5 anni fa con l’intento di promuovere preparazioni a base vegetale che esaltino al massimo il gusto degli ortaggi, a seconda dei contesti: si può calare nel mondo street per soddisfare centinaia di palati ad un music festival, vestirsi elegante per un dinner/lunch di matrimonio o ancora per una più formale pausa pranzo di un convegno, fino a cucinare sulle orme ayurvediche per un retreat di yoga. Ortociclone ha un’anima vagabonda e al momento si sposta lungo l’asse Torino ⇔ Milano ⇔ Brescia.

 

Perché partire

Siamo Andrea e Marta, cuochi senza diploma. La curiosità insaziabile di chi ha sempre imparato osservando ci porta a voler scovare sempre nuove ispirazioni culinarie, quelle che solo un viaggio è in grado di dare.. nuovi stimoli visivi, colori, profumi, sapori, abbinamenti, materie prime, mani sapienti che impastano e mischiano, territori e climi, temperature e luoghi di conservazione.

La traccia

Abbiamo così deciso di stabilire un punto di arrivo, individuare dei territori ricchi di storie da ascoltare, contattare amici che vivono in quei luoghi e che ci indirizzeranno verso i nostri maestri, profondi conoscitori del panorama gastronomico locale. Questi testimoni speciali saranno le nostre guide e li seguiremo passo passo per poter ampliare il nostro repertorio. Partiremo a metà ottobre dalla Liguria per poi scendere verso Toscana, Umbria, Lazio, Campania, Calabria e infine con un piccolo salto approdare in Sicilia.

Cosa osserviamo

Siamo sostenitori del “tempo giusto”, quello di cui tutti i processi di trasformazione del cibo necessitano. Crediamo che il cibo del futuro debba tornare ad essere intriso di attese, le stesse attese che permettono agli alimenti di raggiungere l’equilibrio perfetto.

Nella nostra esperienza da cuochi itineranti abbiamo intuito che il tempo dedicato alla lavorazione di una materia prima e la purezza senza compromessi di quest’ultima sono l’essenza del risultato finale. Con la nostra fame di osservare, sperimentare e trasmettere ci muoveremo tra i luoghi e le persone per riscoprire la semplicità della cucina mediterranea, quella legata alle radici.. quella ortolana! Trascorreremo con queste persone il “tempo giusto”, comprese le attese che avremo l’onore di raccontare elevandole a perfomance come omaggio alla lentezza.

Concentreremo la nostra ricerca sul processo e non sulle ricette. Il concetto di ricetta non dà spazio alla fantasia, la padronanza del processo invece stimola la creatività. Nonostante negli ultimi anni la biodiversità sia stata quasi appiattita dal modello intensivo di produzione e consumo, abbiamo ancora a disposizione una quantità di materie prime, cresciute da mani sagge, che sono incredibilmente capaci di sorprenderci in cucina!

Come ci spostiamo lungo la traccia

Partendo da Torino e con destinazione Pantelleria, andremo quindi alla scoperta di luoghi e di processi cercando di capire come uno influenza l’altro. Abbiamo deciso di dedicare due mesi a questa ricerca, seguendo la traccia diretta verso sud ma sempre pronti a concederci qualche deviazione lungo il percorso.

Il nostro mezzo di trasporto in queste settimane sarà anche la nostra casa. Ci piacerebbe riposare ai piani alti con una Maggiolina, comodissima e famosissima tenda da tetto, salvo dove avremo l’occasione di essere ospitati.

Eccoci

Andrea ha 35 anni. Non più geometra, non più unconventional fruttivendolo (founder del progetto Ortociclo), ora ama auto-sfidarsi ai fornelli. Dice sempre che “ una buona materia prima fa già il 50% del lavoro ”. Gli piace sperimentare senza seguire schemi rigidi, senza paura di esagerare. Lo ipnotizzano i suoi lievitati mentre gonfiano nel forno.

Marta ha 34 anni. Non farebbe altro che stare ad ascoltare storie. E’ designer e come tale le piace osservare dietro gli angolini per trovare spunti progettuali e sognatori con cui discuterne. Il cibo la appassiona da quando ha scoperto il lato grottesco dell’industria alimentare. Da allora ricerca tutti quei mondi che le resistono.

Siamo nell’entroterra genovese, località Poggio della frazione Carsegli in Val Pentemina.

Un monte terrazzato da cima a fondo, anche se per molti tratti non lo si direbbe. E’ un monte ligure dove si può trovare anche un po’ di Machu Picchu e un po’ di Gran Bretagna (soprannomi di due delle terrazze già ripulite dai rovi). Un monte abbandonato, ma da più di dieci anni riscoperto. Dove sei mucche scozzesi guidate dalla più scura del gruppo, la Ginger, aiutano l’uomo a ripulire le terrazze. Su questi gradoni scavati secoli fa ora si ristruttura, si vive e si coltiva. Su piccoli appezzamenti crescono ortaggi che se la sanno cavare da soli e si sperimenta con nuove popolazioni di grani attentamente selezionati.

Elemento re è il fuoco. Nel forno a legna, costruito come prototipo di uno più grande che verrà, le possibilità di cottura dopo la prima infornata di pane sono pressoché infinite. Ci si lascia guidare dalla temperatura che scende, le si dà un’aggiustata con un nuovo fuoco e si è pronti per una nuova cottura. Si parte dalla farinata, che dopo aver riposato per qualche ora entra nel forno a fiamma viva accompagnata dal miglior olio che si possiede. Poi la torta verde, con strati sottilissimi di pasta matta da sbattere come lenzuola per creare una cupola croccante che sormonta un ripieno tutto da inventare in base alla disponibilità della stagione.

Una sera si provano i testaroli, cocci di argilla vetrosa che si lasciano nella brace fino a quando non sono abbastanza incandescenti da poterci colare dentro una pastella di monococco e acqua che si cuoce con il coccio che gli verrà posizionato sopra a creare una colonna bollente e colante. Li stacchi e li condisci con un pesto lavorato lentamente a mortaio.. un aperitivo perfetto. Un altro po’ di fuoco e si inforna la focaccia di Recco, stracchino rovente in strati sottili di pasta – quella avanzata dalla torta verde.

Sul monte le attese, durante le quali gli impasti raggiungono le giuste consistenze, sono spazi in cui dedicarsi a fare legna per un nuovo fuoco o alla raccolta delle castagne che costellano il bosco per la felicità delle scozzesi (in questa stagione sono parte sostanziosa della loro dieta).

E se un giorno piove viene istituito il chestnut day e i cestini raccolti vengono pazientemente lavorati per diventare castagne in sciroppo, marmellata, gnocchi. Mancano solo le caldarroste. In questa stagione la casa scaldata dalla stufa a legna ti dà proprio l’idea di tana.

Se arrivi a Bastian trovi Harriet e Adriano. Forza e gentilezza che strabordano dal loro sorriso.

Come i capperi che crescono inspiegabilmente bene fra i muretti a secco più impervi, così Harriet e Adriano sono attaccati al monte dal 2009. Lunghi anni di ristrutturazione autogestita hanno fatto sì che ora il borgo abbia una nuova casetta, una parte di mulattiera, la pavimentazione ciottolata, un forno e con il giusto tempo un nuovo spazio dove poter accogliere e condividere un modo di vivere, la passione per il cibo buono e fatto bene, a partire dalle materie prime disponibili sul territorio.

Dicono di aver trovato un posto che sembrava bello e che hanno iniziato a costruire il loro progetto attorno alle possibilità che questo offriva. Credono che la frammentazione sia la vera forza, ma fili invisibili li legano ad altre realtà eroiche con le quali creano scambi sinceri, relazioni preziose. 

Siamo in alta Val Borbera, terre che in epoche passate ospitavano circa 300 ettari coltivati a vite. Non si direbbe. Le alte colline sono ricoperte di bosco giovane, segno di un abbandono diffuso. Lo spopolamento dalle valli ai complessi industriali delle città è una storia che ritroviamo sovente. Le comunità locali che fino agli anni ’50 vivevano e facevano vivere questi territori hanno quasi d’improvviso lasciato carta bianca alla natura che ha deciso di riprendersi spazio.

Luoghi troppo belli però per essere abbandonati del tutto. Da un annuncio per strada che recitava vendesi borgata in pietra, no acqua, no luce, no strada nasce così Barbàn. Maurizio e Martina decidono dieci anni fa di iniziare a prendersi cura delle Cantine di Figino, un luogo di fuga dove dal ‘700 gli abitanti si ritrovavano per fare il vino, per fare festa, per fare l’amore!

Lungo la sterrata che porta in cascina si trovano le vigne più vecchie. Circa venticinque varietà differenti che si esibiscono in un circo di biodiversità senza paragoni. Dal 2014 è iniziata poi la piantumazione delle nuove vigne fino ad arrivare ad una superficie coltivata di circa 5 ettari.

Il collettivo, composto da Maurizio & Martina + Pietro & Meri, fa parte di quella categoria che potremmo definire pionieristica di persone che hanno deciso di rivalorizzare le cosiddette zone marginali. “Ri” perché l’importanza di queste Terre è stata molto alta fino alla metà del secolo scorso. Da qui arrivavano le materie prime che venivano poi impiegate in città. Un esempio su tutti è la fagiolana di Figino, grosso fagiolo bianco che veniva utilizzato come accompagnamento nelle tripperie dei vicoli del centro storico di Genova. Già, perché la cucina ligure è inaspettatamente una cucina di Terra. Da questo presupposto parte la preparazione del raviolo fritto di Rapallo che la gentil Liviana ci ha mostrato. Liviana, mamma di Maurizio, é colei che si prende amorevolmente cura del ristoro di Barbàn. Già, perché in cascina, da qualche tempo, si può anche godere di una piccola selezione di piatti super local ovviamente accompagnati dal vino più adatto, raccolto, pigiato, fermentato, maturato ed imbottigliato a ben 5 mt di distanza.

A Barbàn non puntano a diventare grandi sui numeri ma puntano piuttosto a curare al meglio ogni aspetto del loro lavoro in Cascina. Grandi lo sono già! ..nella qualità di ciò che producono e condividono con tutti noi.

 

Il Pratomagno è una zona di confine, a metà fra Arezzo e Firenze. Ogni paese che costella il monte si schiera da una o dall’altra parte con un chiaro accento aretino o fiorentino. In alcuni punti sulla panoramica ci sono ancora i confini tra la baronia dei Ricasoli e la contea dei conti Guidi scolpiti sulla roccia.

Il Pratomagno è terra di castagne. Lungo il Ciuffenna c’erano 21 mulini che servivano prevalentemente per la loro molitura. In questo periodo il bosco è pronto per la raccolta, mentre ci cammini piovono ricci.

Anche qui, come nelle tappe precedenti, tutti se ne sono andati e hanno abbandonato i boschi, abbattuto parte degli alberi per farne legna – vedi traversine della ferrovia. Il periodo coincide con l’arrivo della televisione, quando i seccatoi smisero di essere luoghi dove si tramandavano storie e non ci si trovò più tutti insieme attorno alla brace per le lunghe veglie notturne con una padellata di bruciate (caldarroste) e un bicchiere di vino.

Qui sul Pratomagno la lavorazione delle castagne ha un passaggio in più. Dopo aver passato non meno di 21 giorni nel seccatoio sotto la brace di castagno e venir battute e vagliate, vengono passate nel forno a legna per essere tostate. Questo fa sì che perdano ulteriore umidità ed acquisiscano un leggero sapore di affumicato che ne rende la farina davvero unica.

Tante sono le possibilità per utilizzarla in cucina. Il castagnaccio, che in aretino si chiama baldino, è sicuramente la più conosciuta. Farina, acqua, noci, uvetta (o, nel nostro caso, mirtilli rossi) e rosmarino, abbondante olio e via nella stufa a legna. Oppure ci puoi fare le frittelle o i necci, una crespella di farina di castagna da arrotolare come un cannolo e farcire di ricotta.

Sono tanti gli incontri in questo territorio di montagna.

Primi, inusuali, due francesi che vivono e coltivano un orto coloratissimo a Casale: Dorothée e Julien. La loro misticanza, qua e là un po’ pizzicarella, è davvero pazzesca. Fanno parte dell’associazione dei Produttori del Pratomagno e gestiscono la Botteghina, un posto nel centro di Loro Ciuffenna colmo di delizie locali.

Viviano, invece, è nato a Rocca Ricciarda, sa tutto del bosco e ne conosce ogni castagno. Con Sandra ha fondato Radici, azienda agricola che si occupa di agricoltura biologica e di trasformazione di prodotti della terra. Insieme negli anni hanno messo a punto una serie di sfiziosissimi preparati attingendo dalle ricette della tradizione ma aggiungendo sempre qualche tocco d’innovazione (spaziale la zuppa etrusca!). Ci racconta delle sue castagne, delle diverse varietà che riconosce anche da lontano.

A Casale, a casa di Dorothée, incontriamo anche Roberta. Appassionata cuoca mezza campana e mezza toscana che ci mostra l’impasto del castagnaccio. E mentre aspettiamo che sia pronto ci racconta della cucina di montagna più ricca di quella di valle legata alla mezzadria, una cucina che sfamava la comunità con più varietà e sostanza. Appena sfornato il profumo è irresistibile. Non aspettiamo neanche che si sia raffreddato per fare merenda. 

Ci piace che mediterraneo quanto basta sia un intreccio di radici. Persone che si muovono, che lasciano i luoghi natali per stabilirsi in territori che più risuonano. La contaminazione geografica in cucina è la cosa che ci stuzzica di più. Qualcosa del genere accade a Fondo, dove incontriamo Sara che ha deciso di mettere radici a Trequanda, sui colli di Montalcino, nella splendida Abazia di Sicille, un luogo.. potente!

Sara insieme alla moglie Sabina, somelier e curatrice d’arte, propone un menù forse un po’ azzardato per la zona ma decisamente “svecchiante”. Sì perché combinano prodotti super locali, coltivati in parte nel loro orto ed in parte dai contadini vicini di casa, a lavorazioni che li esaltano con toni un po’ insoliti. Affumicano, braciano, friggono l’impensabile, contrastano e soprattutto.. raccontano e si raccontano! A Sara piace condividere al tavolo i suoi spunti, cosa la fa arrivare ad una pensata geniale per una nuova preparazione e cosa magari dopo poco la porta a toglierla dal menù! Le piace giocare con l’impermanenza, quella che non crea il pericoloso attaccamento! Ci dice che non è possibile legarsi ad un piatto, ad una ricetta. Lavorando con elementi freschi, vivi, mutevoli, osservando, ascoltando, ogni piatto non può che uscire diverso da quello fatto la sera prima.

Per la nostra felicità, ci racconta orgogliosamente le ben sette zuppe presenti nel suo menù. E trasferendoci in cucina, tra un assaggio di olio novo ed un grissino eccezionale, Sara mostra passo passo la preparazione della regina delle zuppe d’autunno.. quella di zucca. A corredo ovviamente un paio di chicche e trucchetti per renderla indimenticabile!

Nella loro sala si mangia, si sente arrivare dal caminetto l’odore della cenere sotto la quale Sara durante il giorno prepara alcune delle verdure in menu, ci si rilassa con un amaro post cena sulle poltrone accanto al giradischi e si acquista al banco della Bottega una forma di eccellente pecorino di Pienza prima di tornare a casa. In questa ex stalla (perché questo era Fondo prima del loro arrivo!) l’esperienza a tavola è decisamente diversa, è quella progettata con coraggio da Sara e Sabina, quella che “piace a chi piace a loro” ovvero alle persone che vengono attirate dalla fresca innovazione di Fondo.

Una piccola valle che, tra tutti i suoi comuni, conta non più di 20mila abitanti. Le colline sono quelle più fotografate della Toscana, anche ora malgrado siano un po’ sofferenti a causa della siccità di quest’anno. L’argilla domina, soprattutto in questo periodo in cui la terra sta attendendo di essere seminata, in prevalenza a grano. I toni marroni/grigiastri della terra arata si danno il cambio col giallo/rossastro del fogliame delle viti. Colori e morfologia ipotizzano.. In questi giorni si raccolgono le olive e non ci si può sottrarre dai crostini col verdissimo olio “novo”.

Gli attuali piatti tipici toscani che si possono gustare più o meno ovunque in regione, qualche decina di anni fa erano del tutto territoriali. Ad esempio la ribollita era tipicamente fiorentina mentre i pici si facevano nelle zone povere al confine con il Lazio. Poi piano piano c’è stata una globalizzazione a livello regionale per cui i piatti tipici territoriali uscirono dalle province per essere proposti indistintamente in tutta la regione, creando infiniti bisticci dalla cadenza profondamente toscana.

Originariamente la ribollita era la zuppa di pane del giorno prima che veniva appunto “ribollita” il giorno successivo. Oggi l’avanzo è più famoso dell’originale! Ingrediente principale e con il quale si può abbondare, il cavolo nero. E attenzione alla cottura dei fagioli (possibilmente cannellini), che deve essere a fuoco bassissimo altrimenti rimangono “buccioni”! 

Con i pici invece ritroviamo il solito amato impasto della pasta matta. Tagliato a listarelle viene tirato da una mano, pigiato e ritorto con il palmo dell’altra per poi finire in una ciotola di semola. Il sugo perfetto: aglione e pomodoro.

Lorenza e Martina, madre e figlia, stessa fine manualità, stesso occhio, stessa capacità di rendere le ricette dei “gadget” (come dice Lorenza). Sanno piuttosto valutare e controllare la consistenza, l’umidità, l’elasticità di un impasto mentre è già in fase di lavorazione. Sanno perfettamente come relazionarsi con le materie prime perché oltre ad aver studiato, sperimentano di continuo senza paura di improvvisare.

Con Martina facciamo il pane, con la farina che c’è. Un po’ di grano tenero, un po’ di monococco e un po’ di grano duro. E visto che è il momento giusto, prepariamo anche un po’ di impasto per il pan co’ santi, costellato di noci e uvetta al vin santo. Il fuoco si fa nell’antico forno dell’agriturismo Il Rigo, alternandosi ad alimentarlo per raggiungere la giusta temperatura. Quando si sforna sono tutti lì, pronti ad assaggiare l’agognata fettona condita con olio novo e sale.

Il nostro viaggio tocca tutti i territori italiani bagnati dal mare d’occidente. L’Umbria però, pur non avendo coste, ci attirava troppo per non concederci una deviazione verso i suoi verdissimi (e arrivando dalla Toscana, davvero ci sono sembrati incredibilmente rigogliosi) pendii. Le colline sono a tratti impervie, tempestate di ulivi, vigne e bosco. Per adesso abbiamo girovagato tra la zona del medio Tevere e la valla Umbra. Per intenderci tra il lago Trasimeno e Montefalco. Panicale, Bevagna, Solomeo, Passignano, Perugia, Sant’Egidio, Spello, e riposi montani a Collepino.

In questa deviazione ci siamo soffermati più che altro sulla materia prima ed alcuni speciali racconti di preparazioni tipiche. A Bevagna siamo stati in un orto “altamente biodiverso” tra forme e sapori eccezionali. Abbiamo poi conosciuto il legume di punta del Trasimeno, la fagiolina del lago. Abbiamo colto gli ultimi fiori della stagione di Zafferano delle Terre d’Arna. A Sant’Egidio invece ci hanno parlato a lungo della torta al testo cotta sotto la cenere.

Ci avvertono che è difficile che gli umbri si aprano agli stranieri.. noi forse siamo particolarmente fortunati, ma ci siamo fatti delle grandi chiacchiere. Addirittura ci guadagnamo una bottiglia di olio nuovo dal signor Carlo, che mentre bada al suo orto terrazzato si incuriosisce della nostra presenza mentre sorseggiamo il caffè dopo una notte in Maggiolina fra le colline sopra Foligno.

1° stop – l’orto dello chef contadino Salvatore Denaro. Siamo arrivati da Salvatore senza sapere chi fosse, ci ha accolto nel suo orto alle 17 malgrado già il tramonto fosse sceso, voleva assolutamente mostrarci cosa le semine di qualche mese prima gli stavano regalando. Dopo le prime battute di una lunga chiacchierata al buio seduti al tavolone del suo orto abbiamo subito percepito l’entità del personaggio. Nato nelle terre del ceppo gallo italico, nel cuore della Sicilia, si trasferisce trent’anni fa in Umbria e lì rimane, felicemente, tra la cucina del suo Il Bacco Felice a Foligno (primissima osteria wine-based umbra) e le cucine di chi ospita la sua estrosità improntata sulla semplicità dei prodotti della terra. Il giorno dei Santi l’abbiamo passato pranzando all’orto con lui, tra una melanzana sott’olio, un fico in sciroppo, olive schiacciate, un’insalata di valeriana appena colta e un sacrosanto spago aglio e olio. Questo fazzoletto di terra coltivato con cura e sregolatezza dal cuoco contadino Salvatore Denaro è uno spazio totalmente anarchico, quasi surreale che funziona bene da orto, ritrovo, rifugio ma anche come oasi di libertà.

2° stop – az. agricola Orsini, un luogo di biodiversità totale. Flavio ci mostra le olive appena raccolte, assaggiamo l’olio novo e ne capiamo le sfumature di dolce, amaro e piccante. Appena entrati in azienda vediamo grandi casse di fagiolina ancora nei suoi baccelli secchi, pronti per essere sgranati. La assaggiamo da cruda, ogni fagiolo ha un suo colore, un suo sapore.. e poi la assaggiamo cotta, croccante ed estremamente variegata. Questo fagiolo è senza buccia, non necessita ammollo e risulta piacevolissimo sotto i denti. Con Flavio, che si fa chiamare con orgoglio e presunzione (sue parole) professor contadino, si ragiona di biodiversità, di meccanismi svincolati dalla produzione industriale, di formazione alla civiltà contadina di cui la sua famiglia è un virtuosismo esempio.

3° stop – az. agricola Al Colle di Sant’Egidio, dove oltre ad un ottimo zafferano si produce passione per un territorio che ha bisogno di mantenere tradizioni tanto antiche quante insolite, come quella degli stimmi rossi delle Terre d’Arna. Claudio Mariucci, ex assicuratore, allenatore di calcio e talent scout di piccoli fenomeni del pallone ci porta al suo campo di zafferano. Siamo a fine raccolto, sotto la pioggia e sprofondando nella terra raccogliamo gli ultimi fiori da cui spuntano brillanti gli stimmi rosso fuoco. Sullo sfondo, Perugia. L’associazione Terre D’Arna, composta da tre aziende agricole, promuove la produzione di questo prodotto prezioso che veniva prodotto nelle mura della città di Perugia fin dal tardo Medioevo.

4° stop – associazione sportiva Sant’Egidio, nonché organizzatori della celeberrima Sagra della torta al testo cotta sotto la cenere. L’associazione, da vent’anni, ad agosto organizza questa ormai attesissima sagra. Il team coinvolge, durante i giorni della festa, un gran numero di abitanti del paese di Sant’Egidio. Sono ormai rodatissimi e, avvalendosi di strumenti realizzati ad hoc per soddisfare i grandi numeri, seguono l’impastatore Fausto in tutte le roventi fasi della produzione della torta. La cenere ardente viene preparata dal pomeriggio e viene poi adagiata sulle torte che poggiano sui loro testi di ferro. Appena pronte vengono sbattute per eliminare la cenere in eccesso e sono pronte per essere farcite con erbe, formaggio, barbozza.. rigorosamente cotte al momento, vanno gustate calde e croccanti. Noi ne abbiamo assaggiato la variante allo zafferano, una bomba!

5° stop – Cantina Marco Merli. Da Marco Merli ci accoglie un signore che alla richiesta “vorremmo acquistare del vino” ci risponde “vediamo che se po’ fa”. Quasi incerti di essere capitati nel posto giusto, il babbo di Marco ci apre le porte della cantina che non è una di quelle cantine imperiali, sfarzose e riconoscibili ma si trova abbastanza nascosta in una zona di campagna semi-urbanizzata. Hanno iniziato, come molti, a fare vino in famiglia e la passione è passata alla generazione successiva. Le uve sono vinificate nella maniera che stiamo cercando di conoscere ed esplorare ormai con costanza, quella naturale. A loro non spiace se di anno in anno lo stesso vino acquisisce toni diversi, d’altronde “il vino naturale è vivo, si muove” . Il babbo sorridendo ci dice “non è mica una produzione in serie di 500L”. Assaggiamo, ci accaparriano qualche bottiglia di vino Tristo, facciamo in tempo a conoscere Marco che nel mentre è rientrato e salutandoci ci consiglia di passare da Calcabrina a prendere del buon formaggio. Si riparte felici.

6° stop – Fattoria Calcabrina. Da Calcabrina incontriamo la mamma di Diego, a conferma che le attività familiari sono e saranno il baluardo, la resistenza della micro impresa. Il loro primo imbottigliamento è nel 2006, lavorano in biodinamica. Seguendo questo metodo non si riescono a fare grandi estensioni, per questo hanno poca vigna, circa due ettari. Sono nelle terre della DOCG del Sagrantino che fino agli anni ’80 era uva da passito. Se a Pasqua non avevi in tavola una bottiglia di Sagrantino passito o di Vernaccia di Cannara era una Pasqua a metà. Insomma, si è partiti col vino, poi nel 2010 sono arrivate le capre, circa 140, per aiutare a chiudere il ciclo chiuso che le realtà biodinamiche richiedono. Di latte in questo periodo non ce n’è, ci dobbiamo “accontentare” di una toma stagionata sei mesi. Eccezionale!

Si entra in Valnerina da una galleria poco dopo Spoleto e subito ti trovi in un’altra dimensione. Sant’Anatolia è la bocca della valle e se ti affacci dal suo balcone riesci ad intuirne il resto. Fa più freddo in valle, e stiamo all’umido per via della pioggia che a tratti riprende poi lascia poi riprende. La notte montiamo per la prima volta la copertura termica alla Maggiolina. La mattina appena ci mettiamo in moto la strada curva mille volte fra le montagne, segue il fiume Nera per un po’, sfiora Norcia e poi taglia verso Cascia. Le nuvole basse miste alla nebbia coprono una parte del paesaggio, ma il resto è magia. Gli alberi sono di fuoco. Le punte più alte toccate dal sole brillano di giallo che ti acceca. Tutto così fino a finire per caso a Tazzo, a qualche minuto da Cascia, qualche casa e dei campi arati che son di pietra più che di terra. E dopo Civita di Cascia, che non capisci bene dove sei finito. Case ricostruite. Un paese che non ha la forma di paese. Qualche mucca pezzata è l’unica forma di vita che incontriamo a mezzogiorno.

A Sant’Anatolia incontriamo Marta Giampiccolo nell’agriturismo di famiglia “Zafferano e dintorni”. La famiglia Giampiccolo produce mele e piccoli frutti che trasforma anche in confetture e succhi. E poi lo zafferano, da 21 anni. Marta ci racconta come questa coltura, anche se ancora poco conosciuta nella stessa Umbria che ne è una delle maggiori produttrici, sia in realtà radicata in tutta Italia. Lo zafferano, ci dice, è molto legato alla presenza dell’uomo che riesce in quasi tutti i tipi di suolo e clima a creare le condizioni perché questo bulbo possa fiorire. La coltivazione è del tutto manuale. Passiamo poi alla parte che più ci interessa, l’uso degli stimmi in cucina. Marta ne esalta la versatilità: “Tutti pensano che ci si possa fare solo il risotto, resterebbero stupiti di quanto si presti in mille altri piatti dall’antipasto al dolce”.

Più in là, a Civita, ci aspetta Silvana. Il suo orgoglio è la roveja, piccolo legume simile al pisello dai colori variegati che vanno dal verde al marroncino al grigio. Silvana la coltiva dal 1999 e dal 2006 la roveja di Cascia è Presidio Slow Food, ne fanno parte altri tre produttori tutti residenti a Cascia, tutti sopra i 600 metri slm (Silvana è a 1200). L’avventura con la roveja nasce quando, dopo il terremoto del ’79, Silvana ne trova un barattolo di semi in una cantina (l’unica parte salva dell’edificio) e decide di provare a seminarla nonostante gli avvertimenti del suocero “Lascia stare, la roveja ti spacca la schiena”. In effetti la roveja non è una pianta semplice in fase di raccolta, ha il fusto vuoto e quindi si sdraia a terra con il peso dei baccelli. Silvana continua dicendo che questo tipo di colture le semini e poi te ne dimentichi, non vanno bagnate “Anche perché qui l’acqua non c’è, tanto meno quest’anno. Qui era l’Africa quest’estate”. La terra è povera, argillosa e molto sassosa “Sono giusto dieci centimetri di terra ed il resto sono sassi”. Passa a darci due dritte sulla cottura del pisello – una notte di ammollo e 30-40 minuti di cottura in acqua abbondante – e poi ci introduce un’interessantissima variante: la farina. Nella tradizione la roveja veniva solo macinata. Risultato una polvere biancastra che si colora di marroncino/verde appena tocca l’acqua. Quindici minuti di cottura in abbondante acqua come fosse una polenta e poi un condimento semplice: acciuga, aglio e olio. 

In Emilia lo stesso pisello, chiamato arveia, è considerato un’infestante del grano. “La localizzazione fa sì che una pianta diventi cibo”. Qui in Valnerina quando la neve persisteva anche per cinque/sei mesi e si riusciva giusto giusto a scavare un piccolo vialetto per raggiungere la stalla, nelle dispense iniziavano a scarseggiare il farro, le lenticchie e gli altri legumi ed era il momento della roveja. Buonissima e croccante l’abbiamo assaggiata fredda in insalata con un po’ di menta e scorza di limone. TOP!

Lungo la strada che da Bracciano porta a Cerveteri si imbocca una stradina di campagna che dopo qualche metro diventa sterrata. Qualche buca più in là un piccolo cartello indica “Fattoria Le Bricchiette”. Da lontano si vede una grande casa e due asinelli. L’arrivo è un ciclone di zampe.. Bernardino sale in macchina, Balù e Trilli si contendono la nostra attenzione, i gatti ci seguono con lo sguardo interrogativo.

Tempo di presentarci e cambiarci le scarpe e si parte con la raccolta delle erbe spontanee che useremo per fare l’acqua cotta. Ha piovuto da poco e la campagna esplode di erbacce tenere. Raccogliamo una cassetta di crespino, farinello, boccione maggiore, silene alba, piantaggine, ramolaccio e cicorietta. Giusto il tempo di dare un’occhiata a broccoli e cavoli giganti dell’orto di Elena ed entriamo in cucina mentre fuori si alza una specie di bufera di vento e pioggia. Felici di essere finalmente al riparo ci dedichiamo alla ricetta del giorno. L’acqua cotta è tipica della bassa Maremma e del Viterbese. I butteri durante la transumanza raccoglievano le erbe spontanee disponibili lungo il cammino e le cuocevano tutte insieme in questa zuppa semplice che parte da un bel soffritto di porro selvatico e si chiude versando la zuppa calda su fette di pane tostato e, se c’è, un ovetto. Nel nostro caso i porri sono ancora troppo piccoli e dunque li sostituiamo con la cipolla.

Mentre Elena ci elenca i nomi scientifici del nostro raccolto, si accende la stufa e iniziamo a conoscerci.

Per metà tedesca e per metà abruzzese Elena ha lasciato Roma nel ’94 e ha trovato la sua dimensione in questa campagna dove al tempo non c’era nessuno. Non c’era nemmeno la strada e tanto meno l’elettricità, per i primi quattro anni si sono dovuti inventare una serie di metodi alternativi per scaldarsi ed illuminare la casa.

La conoscenza delle erbe spontanee le arriva dalla nonna e dalle lunghe camminate nei prati e nei boschi in sua compagnia. Da qualche anno condivide questa sua passione attraverso un’associazione che si chiama “Erbacce e dintorni”.

Prima di dedicarsi al 100% alla coltivazione è stata maestra e poi assessore alle politiche sociali di Bracciano, e anche mamma a tempo pieno. Ora invece tutte le sue energie si convogliano a questo orto dalla terra argillosa che circonda la sua casa. Elena coltiva cercando il più possibile di mantenere l’equilibrio esistente, e questo per esempio include le fasce di rispetto che sono habitat perfetti per diversi insetti utili.

Qui produce diversi ortaggi che vengono venduti alla sua piccola bottega di Bracciano. Bottega che nel tempo è diventata luogo di incontro, scambio di ricette, di consigli.. Elena è un punto di riferimento per i giovani che sul territorio di Bracciano si approcciano alla terra in modo rispettoso e non convenzionale, le piace vedere che nuove energie provano a dirigersi nella sua direzione, anche se spesso deve ricordare loro di non avere fretta e di assecondare i tempi agricoli che sono del tutto in contrasto con la velocità a cui siamo abituati.

Ancora prima di entrare in Lazio i numerosissimi cartelli che indicano ROMA sembrano un invito piuttosto esplicito che ci convince, senza troppa fatica, ad organizzare una tappa in città. Fino ad ora abbiamo evitati i grandi centri concentrandoci sui territori più marginali e meno frequentati, quelli dove ci sentiamo più a nostro agio. Decidiamo però che Roma sia una buona occasione per ritemprarci al caos cittadino.

Roma con una guida romana è quello che ci serve. Prendo il telefono e scrivo ad Andrea, scrittore e non solo (ci vorrebbe l’intero post per raccontare di tutti i suoi interessi e progetti). Al volo organizziamo una cena da lui, che so essere anche un bravo ed appassionatissimo cuoco. L’appuntamento è la mattina presto in piazza Vittorio. Andrea ci tiene a mostrarci il suo mercato preferito, che in effetti ci lascia a bocca aperta.

Verdure dalle forme strane dominano i banchi. Sono varietà per lo più etniche ma prevalentemente cresciute in Italia. Un grazie particolare va alle comunità extra europee che si sono rimboccate le maniche nel coltivare prodotti freschi della loro cultura culinaria. Ogni città dovrebbe poter (e voler!) godere di questa varietà di sapori e profumi. 

Passiamo la giornata camminando storditi dalla caciara cittadina. Il pranzo è a base di una cacio e pepe senza fronzoli, sincera, da Augusto in Trastevere. La bruciamo con altri km di cammino per predisporre lo stomaco ad accogliere a cena un’altro caposaldo della cucina romana. La carbonara. Rivisitata con grande stile da Andrea, ligure romantico che appena rientrato da una presentazione del suo ultimo libro nella piccola libreria dietro casa, si mette ai fornelli ed in quattro mosse prepara dei carciofi croccantissimi, i protagonisti della nostra carbonara. Andrea ci racconta delle sue scorribande nei mercati di Roma, ci intriga percepire quanto gli piaccia stringere rapporti “dai e vai” con signore che gli strappano ricette volanti o con i mercatari più sinceri, quelli che non cercano di venderti la qualunque ma che ti invitano a prendere le materie prime più fresche andando a volte contro ai progetti del tuo menu giornaliero!

Capitiamo in Ciociaria nel momento più importante dell’anno.. la raccolta delle olive. Qui in molti le coltivano in terreni che sono per lo più piccoli frazionamenti. I ciociari ancora ci tengono a mantenere alta la nomea del loro buon olio prodotto sia per lavoro che soprattutto per consumo familiare. Qua e là ci sono tanti piccoli frantoi dove in questo periodo c’è parecchio fermento! Auto e furgoncini fanno spola lasciando ai frantoi le loro casse cariche di olive da molire il prima possibile. Prima si spreme e più si mantengono vive le proprietà organolettiche che verranno trasmesse all’olio. 

Giriamo tra Frosinone, le colline di Boville e la piccola Ripi, colline verdi verdi e tanti paesucoli un po’ disordinati. Ci spostiamo sotto consiglio di Tonino e Franca, amici che conoscono bene questa porzione di Lazio. Ci travolgono con mille racconti sul recente passato della loro terra, come quello del fallone. Un pane povero fatto con farina di mais che si cuoceva al forno sopra una foglia di cavolo. Era il compagno immancabile dei contadini durante la pulizia delle file di granturco dall’erbaccia. Quello era il pasto ed ovviamente non soddisfava la richiesta calorica da grande sforzo. Per questo i contadini erano soliti lanciare il pane qualche metro più avanti ed una volta raggiunto a suon di zappate, strapparne un morso. Un po’ come l’asino con la carota.

Gnocchi, sagne (pasta fresca tipo maltagliati, di sola farina e acqua) e fagioli, minestra di pane sotto, rapette ripassate. Dalla nostra breve tappa in Ciociaria portiamo con noi dei sapori, come molte volte capita, semplici ma unici. Come quelli in cui ci imbattiamo nella cucina di Anna Maria. Dalle patate coltivate nell’orto dedicato alla sua trattoria nascono degli gnocchi superlativi, dai borlotti raccolti freschi nascono delle sagnette incredibili. Le materie prime sono ottime. Il lavoro è più semplice se si parte da questo presupposto. Il suo motto: “Nei piatti ci vogliono pochi ingredienti, e devono sentirsi”

Noi abbiamo l’occasione di assistere e partecipare alla preparazione dei suoi famosi gnocchi. Boni da morire! Patate giuste, farina in perfetta proporzione, manualità e due trucchetti compiono l’opera. 

Anna Maria è fuori portata! Gestisce da sola una trattoria nel centro storico di Ripi. Spadella, accoglie, serve, coltiva il suo orto, tiene gli animali. Già in pensione, si dedica totalmente alle coccole, quelle sotto forma di affetto e buon cibo che dispensa a tutti quelli che passano dalla sua trattoria. “Io cucino come a casa, mica lo faccio in serie!” E infatti, come mettiamo piede in cucina, siamo già di casa! La voglia di trasmettere i suoi piccoli grandi segreti è inarrestabile. Capisce al volo che siamo golosi di spunti, che la staremmo ad ascoltare per giorni interi.. quindi non si contiene. Non è gelosa, anzi! Ha solo un piccolo problema.. non vuol mai rischiare di lasciar qualcuno senza un buon piatto abbondante cucinato dalle sue mani sante. Questo la porta ad essere aperta TUTTI i giorni sia a pranzo che a cena, senza pause, senza compromessi! Chi si ferma una volta da Anna Maria è sicuro di una cosa: che presto tornerà a trovarla.

Lasciando Ripi scendiamo verso Itri dove incontriamo Rino, bravo ragazzo che investe tutte le sue energie nel gestire diversi appezzamenti di ulivi per poi trasformare le famose olive itrane in olio oppure in salamoia. Il tutto portando avanti un progetto sociale di inserimento lavorativo per i migranti presenti sul territorio. Gran cuore! Terre del Sovescio è il nome del suo progetto agricolo.

Siamo ad un passo dalla Campania. Stay tuned!

Se si prosegue lungo la strada che da Fisciano va verso i monti, poco prima del centro abitato di Calvanico, sulla sinistra si trova una piccola stradina e un cartello di legno che dice “Incartata”. Dopo tutta la pioggia dei giorni passati il risveglio all’Incartata ci pare un sogno. Il sole ci svela un paesaggio di montagna costellato da boschi di castagno.

La Residenza Rurale Incartata, un agriturismo decisamente non convenzionale, è un luogo in continua trasformazione da quando Michele e la sua famiglia ci si sono trasferiti nel 2013. Oggi fervono i lavori di ristrutturazione dell’ex cantina che a breve diventerà una seconda sala per ampliare gli spazi adibiti alla ristorazione. Le assi di vecchie botti stanno diventando tavoli per la futura sala. E poi, si sono appena raccolte le olive che in serata andranno al frantoio. Nel recinto gli asini ci chiamano e le oche ci starnazzano appena ci avviciniamo allo spazio che condividono con le capre. 

Prima di dedicarci alla cucina è d’obbligo una tappa alla pasticceria di Calvanico dove non resistiamo alla vetrinetta stracolma delle delizie di Aniello. Una selezione incredibile di pasticcini tradizionali campani, a cui si somma qualche sua invenzione che valorizza i frutti del territorio come le nocciole e le castagne. 

All’Incartata si fa anche il pane. Dal forno esce già il fumo della prima fascina e Michele è pronto per formare le pagnotte della prima infornata. Il pane a lievito madre è impastato con farine macinate a pietra al Mulino del Monte Frumentario di Caselle in Pittari dove, anche grazie alla visione di Michele, è nata la Cooperativa Sociale Terra di Resilienza che produce quelli che loro chiamano “grani del futuro”, varietà antiche coltivate fra il Cilento e i Monti Picentini. Da qui nasce una farina buona, che conserva il germe del grano e che per questo ha una scadenza di quattro mesi. Una farina viva che non segue le etichette delle farine moderne. “Mi chiedono quante doppia vù ha la mia farina, ma noi non l’abbiamo mai misurate!” ci dice Michele.

Ancora ipnotizzati dal fuoco veniamo prelevati dalla chef mamma Anna e da Sandy – la moglie di Michele – che ci portano a raccogliere le erbe spontanee che useremo per il piatto della giornata, il mallone sciatizzo. Questo piatto, si differenzia dal semplice mallone fatto con le foglie delle cime di rapa alle quali si sostituisce, appunto, un variegato mix di erbe spontanee commestibili. E nei terrazzamenti dell’Incartata ne troviamo davvero tante.. ramolaccio, piantaggine, carboncello, calendola, silene, malva, fischietto, cent’occhi, buglossa, parietaria, vitalba, spaccherete, pimpinella, le foglie della margherita, cicoria, tarassaco, achillea.

Dilungandoci in cucina assistiamo, sorseggiando una tisana di nepitella, alla preparazione delle orecchiette anche queste impastate – come tutta la pasta servita all’agriturismo – con le farine super garantite del Monte Frumentario. Le porte dell’Incartata si aprono al pubblico nei weekend, sia a pranzo che a cena. La mamma chef Anna è il punto di riferimento indiscusso dell’area cucina, ricca di preparazioni autenticamente mediterranee. In estate lo spazio esterno si trasforma in Birra O’ Frisk, beer garden dove accompagnati da buona musica ci si rinfresca con birre locali.

Michele arriva dal mondo del marketing ed ora è un contadino con una visione contemporanea di questo antico mestiere. E’ attento a non scendere a compromessi quando si parla di valorizzazione della biodiversità, di attenzione alla coltivazione di quelle relazioni sociali che sono alla base di un progetto rurale innovativo e veramente in grado di far parlare un territorio. Prendersi carico di un pezzo di terra e in più cercare di avviare un dialogo con un’altra generazione di agricoltori per costruire un approccio organico e più sensato a questo mestiere è davvero dura. Ma a noi sembra che Michele abbia le idee chiare.

Nel 2009-2010 Vito, il babbo di Vincenzo, sta girando il Cilento come referente per l’inclusione scolastica per l’Assessorato all’Istruzione della Regione Campania. In questa occasione incontra la preside Maria De Biase che gli racconta di alcune realtà legate al mondo della ruralità contemporanea. Questi artigiani agricoltori che si muovono fra l’anarchico e oltre il biologico e che hanno un rapporto profondo con la terra che coltivano catapultano Vito, e Vincenzo di conseguenza, in un altro mondo. Da qui Vincenzo si inizia ad appassionare al grano ed in particolare al pane. Così, grazie agli 80 kg di grano che gli vengono regalati da Angelo Avagliano della Tempa del Fico, inizia l’avventura con la semina. Ma intanto Vincenzo è sempre più impaziente di avere uno spazio dove poter sperimentare, un vero e proprio forno.. il Forno di Vincenzo. 

Nel mentre fa uno stage da Carmelo di Vico Rua, un localino delizioso nel centro storico di Eboli. Carmelo, grande pizzaiolo, si mette alla prova con Vincenzo per trovare la giusta formula per il suo pane. I dosaggi calcolati al grammo non fanno per loro, ma continuano a sperimentare e i risultati arrivano! Nel mentre Vito e Vincenzo iniziano a frequentare il Palio del Grano e conoscono Michele Sica (vedi Tappa 08) e Alex Giordano, pionieri della Rural Social Innovation.

Noi ci siamo fatti l’idea che la fortuna del Forno di Vincenzo sia proprio il fatto che fisicamente questo forno ancora non esista. Grazie a questo “forno che ancora non c’è” la rete di supporto al progetto si è fortificata sempre più estendendosi ben oltre il confine ebolitano. Infatti, oltre che da Carmelo dal 2017 tutti i martedì Vincenzo panifica, col supporto di Michele che si definisce suo “umile garzone”, nel forno della Residenza Rurale Incartata di Calvanico. “Michele e Carmelo sono i due pilastri portanti del forno di Vincenzo” ci dice Vito.

E poi c’è la Cooperativa Terra di Resilienza e i grani del futuro, il mulino a pietra del Monte Frumentario, la spinta verso l’innovazione sociale e l’attivazione della comunità. Ah, dimenticavamo: nel 2019 il comune di Eboli assegna a Vincenzo un locale abbandonato dal terremoto dell’80 in pieno centro storico. Presto sarà la sede del suo forno sociale di comunità. Lui ce l’ha già in mente, ce lo racconta come se fosse già tutto lì, pronto ad essere sporcato di farina.

Incontriamo Vincenzo di sabato mattina all’Incartata. La domenica c’è il Mercato della Terra a Pellezzano (a pochi passi da Salerno) e il piano della mattinata è quello di sfornare il pane da vendere il giorno successivo. Mentre si preparano le pagnotte Vincenzo ci racconta del suo progetto e Vito ci aggiunge i dettagli. Abbiamo sicuramente una cosa in comune (se non consideriamo il Doblò), entrambi i nostri progetti sono felicemente itineranti. Questo ci permette di incontrare persone speciali, come Vincenzo. Il pranzo al sole di sabato non basta per dirci tutto e così ci diamo appuntamento al mercato della domenica. Dopo un’ora il pane di Vincenzo è già finito e noi arriviamo che la madia è ormai vuota. Siamo invitati a pranzo ad Eboli, per conoscere Carmelo al suo Vico Rua. Durante il pranzo, che è anche un po’ merenda visto che lasciamo il cortiletto di Carmelo alle cinque di sera, abbiamo modo di provare mille sfizi fra cui il famosissimo ciauiello. Ma soprattutto ci piace notare l’intesa fra Vincenzo e il suo compagno di sfornate Carmelo. Salutiamo Eboli sicuri che ci torneremo presto.

In questo post avete letto tanti nomi e speriamo di non averne dimenticati. Questa storia è fatta di persone, ognuna delle quali è un tassello fondamentale nel progetto di Vincenzo. Ci sembrava giusto chiamarle per nome, in modo che possiate andarle a cercare se vi andrà.

Arriviamo da Peppe grazie al consueto e santissimo giro di contatti. Non lo conoscevamo direttamente ma cari amici, buoni conoscitori del Cilento, ci hanno caldamente consigliato di passare a trovarlo. Nelle campagne a ridosso del mare di Paestum approdiamo con piacere al Podere Sant’Antonio 1236. Mentre aspettiamo che Peppe arrivi, ci guardiamo attorno senza comprendere al volo lo scenario che ci circonda. Un edificio bianco, tetto piano coronato da fichi d’India tutt’attorno (bellissimo effetto!). Nel giardino alte palme, un’oca cignoide che passeggia a fianco di galline e gallo, un bel portichetto con poltrone e sdraio, 5 vecchissimi furgoncini Fiat 615 ognuno di un colore diverso e, confinante col giardino, un orto gigante.

Appena arriva Peppe entriamo nella salona principale. Siamo a casa!! Un tavolo lungo lungo di legno, colori caldi, un camino da accendere, delle comode poltrone, un forno a legna e una cucina attrezzata al punto giusto. Questa si chiama comfort zone, si chiama appunto “sentirsi a casa”. Una delle prime cose che facciamo è aprire la bocca del forno. Ci troviamo un’ottima sorpresa, i biscotti.. così Peppe chiama il pane biscottato che ogni settimana sforna. La farina è 100% Cappelli integrale, ruvida, senza compromessi. Il lievito è naturalmente Madre. Il pane biscottato non è semplice pane secco, è pane che viene già intagliato prima ancora che la pagnotta entri in forno. Una volta sfornata, la si divide in tocchetti grazie ai “pretagli” e mentre il forno si raffredda, li si lascia per 2/3 giorni ad asciugare pian piano. Il risultato è estremamente versatile. La serata passa tra scarola e cavolfiore appena colti saltati con olive verdi schiacciate e nere sotto sale di produzione propria, così come l’Aglianico beneventano che andiamo a spillare direttamente dalla cisterna d’acciaio in cantina, dove sta maturando.

Queste belle ore passate al Podere sono state il preludio dell’incontro con Franca (super mamma di Peppe) del giorno successivo. Il movente? La mulignana ‘mbuttunata, nome dialettale della melanzana ripiena. In Campania hanno questo “brutto” vizietto di mbutturare l’impossibile! Dalle melanzane ai carciofi, dalla scarola al peperone. Tempo tecnico? 30 minuti. Una scheggia! Franca si destreggia con una disinvoltura estrema che spiazza la nostra poca reattività nel prendere appunti, fare foto, video, fare domande e buttare un occhio al procedimento. Insomma.. quasi senza accorgercene ci troviamo a tavola con un piatto stracolmo di mulignane ripiene fumanti. Boooneeee! 

Il Podere è un luogo dove si è sempre sicuri di trovare un buon piatto, spesso passano amici, si fermano a cena, a fare chiacchere davanti al fuoco. A Peppe garba così.. e pure a noi! Abbiamo avuto il piacere di conoscere quest’oasi, farci ispirare dall’intraprendenza di Peppe, dalle sue idee e dai suoi progetti passati, presenti e futuri. Incontrare dei vulcani non fa altro che gasare l’avanzata del nostro progetto!

Dopo mille curve con il mare sempre sul fianco destro arriviamo a Marina di Camerota dove Nino ci accoglie nella sua Maricucciata, un ristorante a due passi dal centro del paese.

Chiacchierando con lui prima e con la sua vicina Mina poi, scopriamo parti di storia inaspettata di questa terra di turismo e di migranti. L’impronta del turismo inizia a solcare Marina nel 1956 quando arriva il Club Méditerranée, che ai tempi seguiva il modello francese di turismo in luoghi incontaminati e con pochi servizi. Dopo pochi anni però Marina inizia a popolarsi troppo e a non rispecchiare più lo standard del Med, che si sposterà nella vicina Palinuro. Ancora fino agli anni ’70 Marina è frequentata da un turismo del nord, soprattutto di milanesi e bresciani, differente dall’attuale frequentazione estiva dei villaggi e campeggi costieri. La gente che ha vissuto quegli anni un po’ li rimpiange. Chi ora si trova sommerso dall’ondata del turismo nei mesi di luglio e agosto si interroga su possibili alternative più sostenibili per un paesino che due mesi all’anno vede moltiplicare in maniera spropositata le presenze che però insistono su una rete di servizi invariata rispetto al resto dell’anno.

Altra storia.. chiacchierando con Mina scopriamo che moltissime famiglie di Marina hanno nonni o bisnonni emigrati, fin dagli anni ’30, in Venezuela. “Marina deve molto al Venezuela” ci dice. Chi partiva mandava i guadagni a casa ed investiva sul mattone costruendo quelli che oggi sono le abitazioni del piccolo paese cilentano. Molti sono tornati, portando usanze, ricette e.. camicie a fiori! Storie di intrecci culturali che non ti aspetti, comuni a molti altri paesi del sud.

In questa terra di sole, la macchia regala parecchie chicche che oggi sono al più dimenticate ma che un tempo erano la principale fonte di lavoro di chi ci viveva. A fianco del più conosciuto mirto si trova il lentisco, da cui si estraeva un prezioso olio. C’è poi l’erba spartea, che veniva raccolta per confezionare le corde usate per gli allevamenti di cozze nella zona di Taranto oppure successivamente come tetto dei bungalow dei diversi villaggi turistici. E ancora la carruba, che veniva raccolta secca sull’albero prima di mettere le reti delle olive nel mese di settembre e che, macinata con tutto il baccello, è la perfetta sostitua del cacao in molti dolci.

Subito Nino ci presenta il maracuoccio, un pisello simile alle cicerchie ma di forma irregolare e squadrata. Questo legume, che a noi ricorda la roveja della Val Nerina, cresce soprattutto in terreni rocciosi e viene raccolto esclusivamente a mano. Per questo motivo viene prodotto in quantità ridotte e non viene esportato. Per gustarlo non si può che far tappa a Marina. Non si cucina in purezza, per via del sapore leggermente amarognolo. Miscelato con farina di grano ne esce, dopo una breve cottura, una polenta deliziosa che viene poi condita in diverse maniere. Sembra che questa bontà non sia abbastanza e Maria, sua moglie, ci mostra la versione locale delle melanzane mbuttunate. Melanzane tipo le “cima di viola” che si friggono mantenendone la lunghezza e che quando dorano in padella ricordano dei platani colombiani. Vengono poi rimpinzate e passate al forno. Alè!

Nino è nato in Cilento e, dopo una parentesi di gioventù milanese, torna a Marina di Camerota dove lavorerà al villaggio Happy Village per 23 anni. Finita l’esperienza in villaggio cerca un posto suo e nel 2015 apre la Maricucciata. Sostituisce una vocale al nome originale che sarebbe Maracucciata in onore della moglie Maria, cuoca instancabile. Con lui in cucina oltre a Maria c’è la sua giovanissima figlia, a confermarci ancora una volta la solidità delle attività a gestione famigliare. Grande appassionato dei prodotti della sua terra, ex raccoglitore di erba spartea, riscopre e si innamora del maracuoccio, che si impegna a far diventare Presidio Slow Food. Lui lo coltiva da una quindicina di anni, così come pochi altri produttori della zona. Ultimi abitanti del piccolo borgo di Lentiscosa, insieme alla sorella, Nino e la sua famiglia sono custodi di un entroterra dimenticato.

Fiumefreddo Bruzio è un borghetto medievale di 150 residenti arroccato su una collina con vista mare a metà fra Paola ed Amantea, nel basso tirreno cosentino. Dopo una serie di curve da montagne russe, arriviamo alla nostra prima tappa in Calabria che è già sera. Qui a Fiumefreddo ha preso vita il progetto – e anche cooperativa di comunità – Borgodifiume che, grazie alla volontà del dottor Raffaele Leuzzi, promuove un tipo di accoglienza slow che ha l’obiettivo di offrire a chi decide di passare un po’ di tempo qui un’esperienza diversa dal turismo estivo “mordi e fuggi” e di contrastare lo spopolamento del borgo. Gli ospiti, visti come residenti temporanei, soggiornano nell’albergo diffuso e possono godere della cucina popolare proposta dall’osteria ConVivio. Il ConVivio, enOsteria con l’orto, è un luogo dove si segue un modello alimentare mediterraneo. Cibo semplice, locale e stagionale. Tutto quello che serve per garantire un pasto gustoso e sano. Se poi è consumato in un’osteria dove le verdure provengono da un orto situato poco fuori dal paese e i tavoli sono riciclati da fondi di vecchie barche, ancora meglio!

Al nostro arrivo ci accoglie Maria Teresa, responsabile della residenza storica cuore dell’albergo diffuso. Non c’è tempo per un giro nel borgo perché in cucina è tutto pronto per la preparazione della frittata di patate (silane) di Fiumefreddo. Molto in linea con il tipo di ospitalità che viene proposta a Fiumefreddo, questa frittata richiede tempo per far sì che raggiunga la consistenza perfetta, senza l’utilizzo delle uova. Questa sorta di tortilla, che affonda le radici nel periodo di dominazione spagnola di queste terre, è ancora una volta un cibo povero. Era “U mursieddu” (si prendeva a morsi), la colazione che i contadini si portavano nei campi. Non ha le uova perché tutti i prodotti più di pregio (fra cui appunto le uova) venivano portati dalle campagne al paese per arricchire le tavole dei signori. A nostro avviso questa “mancanza” rende questa torta rustica ancora più speciale. Ogni famiglia qui detiene la sua versione tramandata da generazioni, ma una cosa mette d’accordo tutti: “Più è spessa e più è buona!”. Non resistiamo alla tentazione di sederci a tavola per cena ed assaggiare le altre specialità della casa, fra queste le polpette di melanzane e la “struncatura a mollica”, una pasta lunga condita con briciole di pane fritte e alici.

Prima di lasciare il borgo ci concediamo una passeggiata fra le sue viuzze, e capiamo come possa essere piacevole decidere di concedersi un soggiorno alternativo in questo spazio di tranquillità.

In cucina siamo stati con Corinne, diciotto anni ma una grande sicurezza quando si tratta di destreggiarsi ai fornelli. Da cinque mesi fa parte della famiglia del ConVivio, di cui ci racconta con orgoglio. A fianco a lei in cucina, ora che siamo in inverno, ci sono Maria Teresa ed Andrea. Quest’ultimo, responsabile dell’osteria, ci raggiunge poco prima della cena e aggiunge i tasselli mancanti al racconto di Corinne e Maria Teresa. Una cosa è certa, qui al Borgodifiume il lavoro di squadra per supportare le idee in cui si crede con estrema fermezza è un elemento davvero imprescindibile.

Lago, Aldo e Gisella babbo e mamma della nostra amica Cristina, semi-trapiantata a Milano ma con il cuore “al paese” dove quest’estate, assieme ad altri amici, ha contribuito a dare vita a Sustarìa, un festival di arricchimento per il territorio dove l’auspicio è quello di mostrare in maniera costruttiva l’affannosa ricerca di chi non si accontenta di un monotono presente ma si proietta in un utopico futuro. L’espressione di questa sustarìa (irrequietezza) avviene attraverso la cultura e le sue varie espressioni.

Tornando a noi, arriviamo a Lago scortati da un cattivissimo tempo. Sulla strada che ci ha portati dalla Campania alla Calabria abbiamo incontrato un po’ di tutto.. vento assurdo, grandine, pioggia a secchiate ed anche il signor Augurio. Mentre ci prendiamo un caffè in riva al mare, lo vediamo arrivare con la sua Graziellina carica carica di prelibatezze da donare ad un foltissimo gruppo di suoi amati compaesani che lo attendono con ansia: i gabbiani di Scalea.

Chiusa questa parentesi che ci rimarrà nel cuore, arriviamo a Lago. La Calabria regala degli scenari paesaggistici estremi. Si passa dalle montagne verdi verdi, aspre, bellissime che si notano volgendo lo sguardo verso l’entroterra, allo scempio edilizio senza fine. Macabri villaggi turistici costieri e costruzioni iniziate, mai finite ed in molti casi abbandonate, figlie prevalentemente, ci spiegano, della voglia degli emigrati tornati in patria di investire sul mattone. Chissà poi cos’è successo..

Insomma, dopo un po’ di “sconsolazione paesaggistica” veniamo catapultati nell’esplosivo mondo di casa Muto presso Lago, piccolo paesino della zona costiera di Cosenza. Il nostro primo giorno di permanenza è all’insegna della condivisione di saperi. A casa arrivano parenti ed amici capitanati da Carmela, la master della cucina. Si parte con la farcitura dei fichi disidratati per passare a cannone sui cullura, ciambelline lievitate di farina e patate. Nel frattempo si impastano i turdilli, dolcetti fritti tipici natalizi. Tra un impasto e l’altro assaggiamo le olive che sono state lavorate qualche giorno prima ed i formaggi di capra della signora Maria, bravissima e dolcissima allevatrice dell’azienda agricola Sant’Anna nella Contrada Mirabella a Campora San Giovanni.. Spettacolo!

Non nascondiamo che per noi queste giornate sono abbastanza impegnative, tante indicazioni da assimilare, il genuino e stridente baccano del sud, le infinite maggnate, il dominio del fritto. Tutte cose poco praticate nel nostro modello di vita standard ma questo è il bello, la sfida! Il giorno dopo via che si parte verso il pranzo della domenica a casa dei familiari. Assistiamo alla rocambolesca preparazione della frittata di cipolle e della frittata di pipi d’u tiniàllo, tipicissime verdure (in prevalenza pipi che sarebbero peperoni) messe sotto sale in un contenitori di terracotta (tiniàllo). Ci sediamo a tavola, gnocchi al sugo sempre apprezzatissimi, le due frittatone e vino nuovo fresco. La domenica non poteva che passare meglio. Anzi sì, perché prima di tornare a casa facciamo una tappa dall’ultima donna cestaia del paese. Recuperiamo tre cesti bellissimi intrecciati con la tagliamani, un’erba che qui cresce ovunque e che qualche decina di anni fa era usata per confezionare soprattutto resistentissime corde. 

I nostri tre giorni di permanenza a casa Muto sono stati accompagnati da una continua pioggia battente ma da tanto calore umano. Con un bel sole ripartiamo alla volta della costa Jonica dove ci aspetteranno sicuramente chilometri di mare azzurro e chilometri di fichi d’India appesi alle pareti delle montagne.

L’appuntamento a Cardeto da Il tipico calabrese è alle 13. Arriviamo trafelati ben dopo le 14. Marcello ci rassicura, siamo comunque i primi ad approdare alla sua osteria, qui si presentano tutti con largo ritardo rispetto alla prenotazione. Noi ci sentiamo quasi miracolati, per via della strada appena affrontata. Abbiamo lasciato Siderno alle 11 aggirando i continui suggerimenti del navigatore che vuole portarci verso percorsi più lineari. La via interna dell’Aspromonte ci sembra più diretta e poi non resistiamo al richiamo delle montagne. Lasciata la costa all’altezza di Condofuri iniziamo ad inerpicarci per stradine strette attraversando micro borgate che poi ad un certo punto finiscono lasciandoci soli ad affrontare una strada che si fa ancora più stretta per via delle mini frane di terra e sassi che rotolano sulla carreggiata da destra e del cemento che viene mangiato dal burrone dall’altra parte. Affrontiamo anche un piccolo guado. Il paesaggio però è mozzafiato. Ulivi coltivati su pendenze folli, ginestre, fichi d’india, montagne selvagge che ci ricordano un po’ la nostra amata Corsica. Incontriamo solo qualche timida mucca e un gruppetto di case dall’aspetto spettrale – Cardeto Sud. Quando si inizia a scendere il peggio è passato e finalmente scorgiamo la nostra meta in lontananza. 

Marcello ci accoglie nella sua osteria e capiamo subito che si tratta di un posto speciale. Al piano di sopra una piccola collezione di oggetti antichi che raccontano la civiltà contadina locale. Una volta a tavola Marcello e sua moglie Giovanna ci coccolano con portate semplici ma dai sapori unici. La cucina ha sempre le porte aperte e si intravede la mamma di Giovanna ai fornelli. Assaggiamo delle olive spaziali, fagioli “lupineddu” tenuti caldi sulla “fornacetta”, polpettine di erbe di campo, cucuzza (zucca) grigliata, pasta fresca ai broccoli.. insomma, è chiaro che gli osti hanno capito come farci felici!

Dopo il caffè riusciamo a chiacchierare con i padroni di casa che, porta dopo porta, ci mostrano tutte le meraviglie nascoste del Tipico. Prima il laboratorio dove Marcello intaglia a mano le musulupare (formine antropomorfe dove stagionare il formaggio), i mestoli per la ricotta e i collari per le mucche. La stanza successiva è un tripudio di vasi, fra olive in salamoia, sottaceti e altri tipi di verdure conservate. Passiamo al laboratorio dove si lavorano i vari prodotti, fra cui il maiale. C’è anche un piccolo affumicatoio per insaccati e carne dove vengono bruciati fusti di finocchietto, vite e altri legni aromatici. L’ultima porta, la più remota, è quella dove in piccole botti sta riposando il vino nuovo. Non è finita qui, prima di salutarci facciamo un salto nella bottega che si affaccia sulla strada. E’ attiva solo nei mesi estivi e qui gli avventori possono trovare una selezione di prelibatezze locali e di pezzi d’artigianato provenienti da tutta la Calabria.

Marcello, di formazione graphic designer, dopo un periodo nelle Marche da vero resistente decide di ritornare nella sua Cardeto dove il progetto iniziale è quello di fare una piattaforma online di vendita di prodotti artigianali calabresi. Ristrutturato un casolare in paese Marcello lo trasforma in un luogo di accoglienza. In principio i primi a godere di questa casa di cultura e cibo buono sono gli amici di Marcello che si riuniscono qui “per fare poesia”, ci dice Giovanna. Quest’ultima, intuendo la cadenza con cui avrebbe dovuto preparare cena per gli ospiti di Marcello, gli propone di aprire un’osteria. E così dal 2009 l’osteria di Giovanna e Marcello fa felici i locali, ma soprattutto una fitta rete di ospiti che vengono da fuori e che lasciano commenti appassionati appesi alle pareti del locale. Ci lasciamo promettendo di tornare il prossimo anno per un corso approfondito sulla lavorazione delle olive. Non mancheremo!

Il numero di telefono di Maria lo custodiamo con cura dalla partenza di mediterraneo quanto basta. Valentina (la nostra nuova amica di Roma) si è raccomandata: “in Sicilia non potete non incontrare Queen Caponata”. A detta sua, la miglior caponata dell’isola. La curiosità è troppa e appena scesi a Messina, ancora un po’ increduli di essere finalmente sbarcati in terra siciliana, la chiamiamo. Maria non si nega e in un minuto siamo già per strada diretti a San Piero Patti. La strada che porta da Patti verso l’entroterra attraversa una campagna verde verde con l’acqua che scola sulle strade in salita. Ma il vero spettacolo è quando ti giri di 180 gradi e ti ritrovi a contemplare le Eolie dall’alto. 

L’appuntamento con Maria è la mattina al Non solo Pizza. Dalla porta aperta della cucina intravediamo la nostra Queen. Con lei confermiamo la regola non scritta che ci accompagna dalla nostra partenza “la cucina è tutta questione di consistenze e di quanto basta”. La seguiamo attentissimi in tutti i passaggi che ci portano alla porzione di caponata tanto attesa. Con una disinvoltura degna di una grande maestra Maria ci mostra il taglio della melanzana, ci dà dritte sulla frittura, imbastisce il soffritto e assembla il tutto in tempo record. Ingrediente fondamentale: l’origano che raccoglie ogni anno sulle sue montagne. Per l’assaggio inforna al volo dei triangoli di impasto pizza che diventano dei mini cuoppi da farcire con la caponatina appena approntata. Bontà assoluta!

Ps: ci racconteranno amici di Catania che, secondo l’ipotesi più quotata, in origine la caponata fosse un piatto riservato alle tavole dei ricchi e che prevedesse la lampuga (pesce mediterraneo chiamato in siciliano “capone” appunto) fritta. La versione che conosciamo oggi – dove la melanzana sostituisce il pesce – è una rivisitazione in chiave povera che ha permesso a questo piatto di poter essere assaporato anche dai palati di chi stava fuori dai palazzi.

Stiamo quasi per salutarci quando a Marta scappa del suo immenso amore per i cannoli. Non serve aggiungere altro, Maria si propone di farli insieme nel pomeriggio. “E che ci vuole?”, ci dice. Così, recuperata una ricotta ancora calda in campagna, iniziamo a lavorare l’impasto per le bucce. Stendiamo, coppiamo, arrotoliamo e friggiamo. Tempo fra la farcitura e l’assaggio.. mezzo secondo. Il primo cannolo del viaggio, indimenticabile. Così come la dolcezza di Maria.

Queen Caponata apre il suo locale nel ’94. Ci racconta che fin da piccola aiutava il babbo con il ristorante di montagna. Dopo essersi sposata ha resistito poco prima di aprire un posto tutto suo, dove poter accogliere gli affezionati con piatti semplici ma estremamente gustosi. Amante del forno a legna ne sfrutta con maestria la tenuta termica fra un’infornata di pizza e l’altra. Quello che ci colpisce di Maria, oltre a scoprire del suo padre 99enne che instancabile ancora coltiva un orto poco fuori dal paese, è la semplicità con cui ci dice quanto si viva bene lì a San Piero Patti. Un paesino che, così come tanti di quelli che abbiamo incontrato nelle aree interne, si sta pian piano spopolando. Ma in cui si ha sempre una buona scusa per tornare, anche solo per una sera: sedersi a tavola e farsi coccolare da Maria.

Prima di approcciare Catania, la scrutiamo dall’alto, da circa 2000 m sul livello del mare circondati dalla neve. Il termometro ne segna zero ma percepiti sono molti meno per demerito del vento forte. Abbiamo la fortuna di vedere l’Etna imbiancato mentre getta fumo nero dal cratere. Salendo ai 2000 lo scenario ci dà degli schiaffoni emozionali. Sulle basse pendici, dove ancora l’urbanizzazione prevale, il bosco è tappezzato di munnezza. Un colpo al cuore vedere boschi splendidi in queste condizioni. Più si sale, più la sporcizia lascia spazio (thanks god) alle immacolate antiche colate, pietroni neri frastagliati e ammassati in distese enormi.

Il mare da lontano ci chiama e dopo un paio d’ore in mezzo ad una neve totalmente inaspettata, ci lanciamo nella discesa verso i 15° di Catania. Emanuele, nostro caro contatto catanese, ci conduce sapientemente da una delle figure di riferimento della città, Ciccio Giunta. Lo conosciamo al Rocket, locale aperto da circa 3 anni nato come fisiologico sviluppo di “Rocket from the kitchen”, progetto di cucina siciliana etica, sostenibile, accessibile. Ci sentiamo subito accomunati dalla ferma convinzione che un’ottima materia prima faccia già buona parte del lavoro, dalle origini in veste street food, dall’essersi lanciati nel mondo della cucina con poche risorse ma con grande cuore. Le chiacchiere proseguono in un tranquillo secondo giorno di esplorazione catanese. La terza giornata inizia invece a la Pescheria, mercato storico del pesce che ancora mantiene la sua autenticità lottando contro la gentrificazione del quartiere e la minaccia dei sempre più numerosi localini/ristorantini che di autentico hanno ben poco ma che stanno piano piano prendendo il sopravvento. Noi vogliamo pensare che le vecchie drogherie, il macellaio, le rosticcerie, i formaggiai terranno duro senza cedere alla tentazione di vendere.. sarebbe una sconfitta sociale enorme!

Dalle urla del mercato ci spostiamo nella Catania dei “ragazzini a cavallo”. Ciccio e Valeria ci portano a conoscere Santa, regina indiscussa di via della Concordia. A Putìa do Calabrisi, osteria ma anche casa per molti, per noi paradiso dei sensi. Il giusto casino, gli zampognari che suonano, il vino direttamente dalla botte, abbondanza di semplice cibo che merita, la tavolo condivisa.. il pianeta osteria così come eravamo abituati in un passato non poi così lontano. Salutiamo e ringraziamo Santa e uscendo capiamo al volo che nel quartiere esistono animali domestici un tantino unusual. Ragazzino 8/9 anni max, calesse in legno, pony. Gli amici lo seguono in motorino, tutti felici, noi pure di avere assistito alla scena surreale! 

Passiamo a conoscere la Lupo, ex palestra di scherma, abbandonata ma fatta rivivere da un’occupazione creativa degli spazi tra upcycling e lab di cucina etica, tra espressione d’arte e concerti. Un bene comune fatto rinascere e che vive grazie a lavoro e anima di un forte collettivo umano. Dalla Lupo alla cucina di Ciccio ci sono 5 minuti di auto. Ora è arrivato il momento.. quello del macco di fave. Ci interessa replicare il suo gusto, l’idea di portare la fava nei nostri territori. Stiamo parlando di una crema densa dove il profumo del finocchietto non può mancare e la cicoria neppure! Lasciamo Ciccio nell’immediato pre-partita di Champions Atalanta – Villarreal. Il suo legame con l’Atalanta non ci è chiaro ma lo assecondiamo con interesse.. 

La nostra permanenza a Catania si conclude con un’ultima e doverosa cena al Rocket mangiando il macco da noi co-prodotto e bevendo un bicchiere con Alba e Vincenzo, amanti di buon cibo incrociati grazie ad un destino favorevole. Arriva una vespa, è Ciccio. L’Atalanta ha perso ma non importa, “i ragazzi hanno giocato bene”. Un catanese che tifa Atalanta è il giusto specchio di questa città.. un nonsense dotato di equilibrio perfetto. Arrivederci a presto!

A Solarino ci arriviamo col buio e col vento dopo esserci intrattenuti per un lungo pranzo fatto di tanti assaggi e chiacchiere a Buccheri, all’osteria U Locale, da trent’anni condotta dai fratelli Formica, icone di una cucina che non stressa le materie prime. Ci piace questo approccio! Sebastiano ci ha donato parecchie dritte su prodotti locali e la loro annessa lavorazione. Lo vediamo che spadella e assembla in tutta tranquillità dalla saletta a ridosso della piccola (il giusto!) cucina. 

La discesa da Buccheri a Solarino è accompagnata da scenari rocciosi notevoli. Alex ci attende in fattoria. Anche se il buio è già attorno a noi, ci tiene a farci buttare un occhio in ogni angolo dei loro 3 ettari.. la zona accoglienza, l’orto, il pollaio ed i suoi 35 inquilini, l’uliveto, il frutteto esotico, la compost toilet. Lasciamo all’indomani solo il rudere (ancor per poco rudere!) e la zona più distante dal cuore della fattoria dove sono piantati gli ulivi ulivi ed i giovanissimi mandoli che a stento si notano. Non manca un accenno di macchia mediterranea, tra aromatiche e piante di contorno che costituiscono il primo livello della food forest che verrà. Si percepisce bene la netta distinzione funzionale delle aree, tipica dello stile permaculturale dove la progettazione degli spazi è profonda e attenta. 

Chi arriva alla permacultura molte volte ci arriva grazie ad un lungo percorso, chi per delusione, chi per illuminazione, chi per entrambe per un principio di causa-effetto. Il cardine sta nel raggiungere per mezzo della permacultura l’equilibrio perfetto negli spazi di vita quotidiana, quelli “presi in prestito dai nostri figli”, citando Alex. 

Questo ovviamente è possibile farlo assecondando la natura che popola lo spazio, incoraggiando processi naturali che hanno un’esperienza millenaria sul campo, intervenire il meno possibile, impattare poco. Tutto questo è visibile nel processo di rigenerazione che Alex e Federica con grande pazienza stanno portando avanti ormai da 6 anni alle Guainelle. Vivono in paese ma il futuro lo vedono giustamente in campagna, nel loro parco giochi di biodiversità.

Ci accolgono in maniera da noi molto gradita con un elenco di prodotti tipici del territorio + relative possibili trasformazioni. Andiamo dritti sul Cazzamarru! Semplicità disarmante ma assai interessante. Erbe spontanee presenti, possibilità di fare brace anche. Il gioco è fatto. Ne esce un cartoccio unico! Un’immancabile insalata di finocchio e arancia, porro e cappuccio fermentati magistralmente da Federica, un’ottima pasta fresca tirata da Alex completano un pranzo al sole domenicale coi fiocchi. 

Per la sera approfittiamo degli ultimissimi peperoni aggrappati alle pianticelle e della brace ravvivata che ci permette di passare una serata sotto il cielo della campagna siracusana che, malgrado la latitudine, tende ad una gradazione Celsius percepita vicina allo zero. 

Bene! Nelle nostre eterogenee tappe, una coppia di permacultori provetti in piena sperimentazione proprio ci mancava e con nostro sommo piacere l’abbiamo trovata, conosciuta e raccontata. Il loro progetto e la loro prospettiva non può far altro che invogliarci nel tornare a trovarli, in un futuro non troppo lontano, per dare una controllata allo stato di avanzamento lavori!

Suggerimenti volanti catanesi ci indirizzano a Scicli. Da Modica ci si arriva in discesa e la si inizia a pregustare dall’alto. Il sole è di nuovo caldo e illumina i palazzi e le vie. La luce è brillante, ci fa immaginare scenari estivi torridi a rincorrere l’ombra e siamo grati di esserci capitati a dicembre. Per fare amicizia con il luogo ci fermiamo al chiosco a bere un caffè dove manchiamo Roberta per pochi secondi.

La ritroviamo all’entrata di Ùmmara, vineria con cucina. In cucina ci raggiunge anche Pietro che, insieme a Roberta, cerca di illustrarci le infinite varianti e piccole differenze della scaccia (impasto di grano duro sottile ripieno di quel che vuoi tu). A questa si aggiungono a tradimento le ‘mpanate e la versione natalizia, ancora più ricca e panzuta, il pastizzu. Ed è proprio quest’ ultimo il protagonista della spadellata nella cucina di Ùmmara. Anche il pastizzu è ovviamente soggetto a mille varianti, dalla versione di terra con bucatino e “ciurietto” (broccolo) a quella di mare con spaghetto sottile e seppie fino a quella mezza e mezza con “patacche” (topinambur) e baccalà. Siamo un po’ spaesati, ma i nostri maestri dell’impasto ripieno ci rassicurano confessandoci che qui la ricetta cambia da famiglia a famiglia, persino nelle fattezze del “milu” – la chiusura del fagotto nonché la sua parte più ambita e croccante. Sicuri del fatto che non basterebbe una vita sull’isola per poterne cogliere tutte le varianti, ci godiamo i racconti di scene surreali durante pranzi e cene di Natale. Quello che in assoluto ci piace di più del pastizzu è che si tratta di un piatto della festa, un fagotto chiuso quasi fosse incartato che ogni Natale viene aperto per svelarne la sorpresa del ripieno. Piccolo spoiler: la lettera di impasto “u pillolo” che ci si attacca sopra prima della cottura che dovrebbe dare indizi sul ripieno. Ad esempio la P potrebbe stare per patacca, per patata, ma anche per Pietro se la cuoca ha preparato quel determinato ripieno apposta per il fortunato Pietro. Insomma, tutto a libera interpretazione tranne una cosa su cui tutte le famiglie di tutta la Sicilia paiono essere d’accordo. L’abbondanza. Un pastizzu di dimensioni medie, e noi che lo abbiamo provato possiamo garantire, basterebbe a sfamare almeno 3 persone. Ecco, ci viene raccontato che il 24 sera è facile trovarne sul tavolo un minimo di uno per membro della famiglia. Tutto l’avanzo è aperitivo del pranzo di Natale e poi dritto nel congelatore per i periodi di magra. Nella nostra versione non può mancare il capuliato, saporitissimo trito grossolano di pomodori secchi in olio. Una volta riempito il disco di pasta di sotto lo copriamo con l’equivalente superiore e Pietro procede con il certosino raccordo delle due, “u milu”. Mentre aspettiamo che il forno ci regali le meraviglie ripiene, plachiamo l’impazienza con un assaggio di pane cunzato con lo “strattu” – saporitissimo estratto super concentrato di pomodoro che per noi è quasi leggenda da quando Harriet di Bastian (prima tappa di Mediterraneo quanto basta) si è raccomandata di trovarlo a tutti i costi una volta approdati in Sicilia. Lo strattu in effetti è notevole, liquido di pomodoro che si addensa solo ed esclusivamente al rovente sole di Sicilia, quasi un miracolo per noi abitanti della pianura padana. Quando sforniamo il pastizzu in piccolo stiamo celebrando un natale anticipato, soprattutto per la generosità della porzione che ci viene offerta. Delizioso. Soprattutto perché in accompagnamento Pietro improvvisa un assaggio di vini naturali, che fin dall’apertura Ùmmara propone da vero pioniere ai suoi avventori.

Pieni di gioia e ripieni di pastizzu ci facciamo guidare da Roberta a zonzo per Scicli. Scopriamo le grotte di Chiafura, il corrispettivo siciliano dei sassi di Matera che così come accadde in Lucania vennero abitate fino agli anni ’60 quando gli abitanti furono sfollati e trasferiti in quartieri periferici costruiti ad hoc con l’obiettivo di migliorarne le misere condizioni di vita. Il sito, che possiamo sbirciare solo da lontano perché nonostante i lavori per renderlo fruibile risulta attualmente non accessibile, è un’affascinante groviera scavata nella roccia cosparsa di fichi d’india.

La città ci ha stregati ma ci tocca salutare Roberta, classe 87 ed ex designer che lascia Roma per tornare alla sua Scicli ed iniziare a destreggiarsi in cucina. Da Ùmmara ha trovato il suo spazio d’espressione, ci passa gran parte del suo tempo ma ci confessa di farlo senza sentirne il peso. Capelli rosso fuoco e un’umiltà di quelle che ci piacciono. Siamo sicuri che diventerà grande maestra di piatti siciliani che sa raccontare con una passione vera, supportata dalla super spalla Pietro – profondo conoscitore di vini naturali e delle tradizioni culinarie della sua terra.

Guardando la mappa Sciacca è proprio di passaggio lungo la nostra traccia diretta a Trapani. Illuminazione! Scriviamo a Sergio, che gestisce delle fantastiche stanze con vista in città. Ironia, Sergio in questo giorni è a Torino ma ci racconta di un bel progetto di cui fa parte, il Museo diffuso dei 5 sensi, lasciandoci il contatto di Desirée. Detto, fatto. Desirée con un’efficienza vulcanica ci organizza in qualche ora una cooking session. Senza averne i dettagli siamo felici di avventurarvici.

A Sciacca arriviamo col buio e un po’ alla cieca un’intuizione ci porta nel posto più panoramico possibile. La luna illumina a giorno. Fichi d’india immancabili, agave giganti pure.

La mattina abbiamo appuntamento alle 11 al Residence San Marco dove ci accolgono Rahma e Daniele. Finalmente iniziamo ad intuire qualche pezzo finché arrivano anche Desirée e Caterina, la nostra super chef. Le due hanno le auto stracolme di ingredienti, decretiamo da subito che potremmo sfamare l’intero quartiere. Ci prendiamo il giusto tempo per conoscerci perché ne vale davvero la pena. L’entusiasmo del gruppo e i progetti di cui i nostri nuovi amici fanno parte meritano davvero che si trascuri per un attimo il nostro pranzo. Ma un attimo solo perché non appena Caterina prende le redini della situazione il tavolo pieno di prelibatezze diventa di colpo spianata dove iniziare a trasformare gli ingredienti che serviranno per produrre una serie di piatti suuuuuper tipici.

Si parte con un aperitivo di pane cunzato per poi passare all’immancabile insalata di finocchi e arance, fino alla nostra cara caponata e poi ancora funghi impanati con mollica fresca e pomodorino secco e la regina incontrastata: la pasta. Anche questa, per restare in linea con la ricchezza delle precedenti portate ci viene proposta in due versioni, la più conosciuta norma e la saporitissima ‘ncaciata. Quest’ultima ci cattura con la sua semplicità, cavolfiore romanesco e semi di finocchietto. Tutto abbondantemente condito con l’olio prodotto da Caterina nella sua azienda agricola biologica “Caterì”.

Mentre sotto l’occhio vigile di Caterina ognuno contribuisce al pranzo a modo suo, riusciamo a farci raccontare da Desirée il progetto del museo diffuso. Ci racconta di Viviana che torna a Sciacca dalla Svizzera per valorizzare la sua terra. E ci riesce alla grande coinvolgendo la comunità locale in un’idea di innovazione territoriale che si concretizza nell’associazione “museo diffuso dei 5 sensi”, che evolve in seguito in cooperativa sociale di comunità di cui fanno parte artigiani, commercianti, strutture ricettive, ristoranti, associazioni culturali, associazioni di categoria e liberi cittadini. Ad oggi i membri sono 4000, tutti orientati ad un semplice obiettivo: vivere felici nel proprio territorio. Con questo goal chiaro in mente questa rete è riuscita a rispolverare e rendere fruibile ai “cittadini temporanei” (chi ha la voglia uscire dalle vesti di turista e di immergersi in un’esperienza più autentica) una serie di identità – e di luoghi dimenticati – tipiche del territorio. Queste hanno preso la forma di “experiences” legate ai 5 sensi, un’offerta turistica più organica di cui i cittadini sono i protagonisti assoluti. 

Tornando ai fornelli, non possiamo non spendere due parole sulla nostra super chef. Raccolta la richiesta di Desirée, Caterina si toglie i vestiti da contadina e si fa bella per incontrarci. Giovanissima – 31 anni – imprenditrice agricola produce olio, uva da mosto e a rotazione diversi seminativi. Ha avviato la sua azienda biologica di 20 ettari nel 2012, dopo essersi laureata in giurisprudenza. Non ha resistito al richiamo della terra ed ora ci si dedica con una passione travolgente. Ci racconta degli esordi duri da giovane donna che decide di lavorare in campagna e con orgoglio ci fa capire che ora anche i più scettici non hanno più dubbi sulla sua capacità di gestire tutta sola la sua azienda agricola. D’altronde “Ora so anche portare il trattore!”, ci dice. WOW!

Pantelleria la consideriamo come il nostro arrivo, ultima tappa del nostro lungo viandare anche se fra la piccola isola vulcanica e Palermo sappiamo che qualcosa ancora accadrà..

Natale a Pantelleria è il titolo del nostro personale cinepanettone 2021 dalla scenografia, per noi, del tutto surreale. Un vulcano spento in mezzo al mare, più vicino alla Tunisia che alla Sicilia, che ha fatto “rumore vero” per l’ultima volta migliaia di anni fa ma che ancora sprigiona un’energia forte. Lo si nota a occhio nudo dalle tante fumarole sparse qua e là, dalle vasche di acqua calda affiorante a ridosso del mare, dalle “grotte sauna” ma lo si percepisce anche su livelli più sottili, emotivi. Pantelleria impatta! Non poteva insomma che essere il culmine del nostro viaggio.

Scegliemmo Pantelleria anche grazie ai racconti di Gatto e Sara, amici che da tempo ci stuzzicavano l’immaginazione. Loro non sono sull’isola ma facciamo comunque base al loro super dammuso. Con delle dritte da veri fenomeni ci indirizzano dritti dritti dai ragazzi di Uddè. Alessandro, pantesco di origine, prima cuoco stanziale adesso itinerante. Alessia, danza abilmente su note orientali e da questa primavera affianca Ale negli eventi sull’isola. Le similitudini con la cucina vagabonda di Ortociclone ci piacciono e non fatichiamo a trovare punti di unione. La prima serata la passiamo tirando maccarruna e sagomando ravioli. I primi un classicone della pasta fresca lunga sapientemente formati con un raggio di bicicletta o di un ombrello e i secondi ripieni con una ricotta da lacrime e menta appena raccolta in giardino. Chiudiamo con un insalata di patate, pomodori + l’interessante variante delle cipolle marinate.

I dolci li lasciamo al giorno seguente, quelli sono affare di Antonia, mamma di Alessandro. Di dolci isolani ne esistono tanti ma quelli imperdibili sono i baci. Una sorta di cannolo ma la cialda prende forma da una pastella e non da un impasto vero e proprio.. e che forma! L’originale è la stella. Esiste un simpatico stampino che con una serie di trucchetti permette alla pastella di aggrapparcisi e di friggere fino a “cialdificarsi”. Antonia ci guida passo passo, se la ride vedendo il nostro goffo approccio alla frittura ma ci spinge a continuare e riprovare. Alla fine ce la caviamo con un modesto, ma per noi importantissimo, “vabbè dai per essere la prima volta..” Insomma, il bacio è composto da due cialde a stella ripiene di ricotta dolce e volendo scagliette di cioccolato. Non potendo al momento far altro, vi lasciamo immaginare lo spettacolo. Antonia ed i ragazzi ci congedano con un bellissimo invito per il pranzo di Natale al quale non possiamo (ne vogliamo!) rinunciare.

Tra una session e l’altra di cucina ne approfittiamo per aggirarci tra gli scenari pazzeschi dell’isola nera. Non c’è candore nelle pietre dei dammusi, dei muretti a secco, delle montagne. La tonalità del paesaggio ti manda quasi fuori frequenza, ma ci sta! Gianvito, altro autoctono che abbiamo avuto modo di conoscere abbastanza bene, ce lo conferma. L’isola è così, è forte, “c’è chi dopo un giorno non regge e scappa, c’è chi se ne innamora e ci si trasferisce”.

Pantelleria dicono non essere un isola di pescatori ma di contadini. Micro contadini nel senso che non avviene un gran commercio di prodotti agricoli isolani ma ognuno tende ad autoprodursi il necessario, tra ortaggi, vino, capperi, olio. Discorso a sè per le erbe spontanee che grazie alle temperature che scendono difficilmente sotto i 15 gradi nei periodi più freddi, danno sostentamento praticamente tutto l’anno.

Passare il Natale a Pantelleria per noi è stato magico, passarlo festeggiando in una famiglia local ancora di più. Per essere forestieri alla prima esperienza sull’isola mezza araba mezza italiana, abbiamo avuto la fortuna di conoscere un sacco di persone, tutti molto ospitali, simpatici, decisi, orgogliosi, sinceri.. tutti molto “panteschi”. Un grazie speciale Sara e Gatto per l’appoggio al dammuso (su Facebook Il Dammuso di Bukkuram), ad Alessandro e Alessia (Uddè cucina itinerante) ed a Gianvito per essere stato nostro grande cicerone e guida. 

Pantelleria, see ya!